In una lunga intervista al “Corriere della Sera”, Raffaele Morelli – 75 anni appena compiuti – si definisce “un imbranato tecnologico”. “I libri li scrivo a mano, pagine su pagine – confessa – Solo dopo un po’ trasferisco i testi al pc, ci pensa sempre la mia segretaria: lei digita, io detto. Quindi scrivo a penna e uso il telefono solo per telefonare (…) Non ho neanche Whatsapp, uso solo sms (…) Io uso i social per lavoro e non trascorro lì la mia vita”. Milanese doc, psichiatra e psicoterapeuta, fondatore di Riza, istituto di Medicina psicosomatica, Raffaele Morelli è spesso ospite nei salotti tv.
“Il suicidio giovanile è ormai la seconda causa di morte fra i giovani”
“In verità non voglio più commentare i delitti – svela – Il mio lavoro è fatto per la vita, invece in tv a ogni ora si parla di morti. Alle nove del mattino, nelle trasmissioni del pomeriggio con i bambini che girano per casa: sembra che non abbiamo più sussulti se non di fronte al sangue. Dovremmo interrogarci in altro modo. Per esempio perché non pensiamo al suicidio giovanile che è ormai la seconda causa di morte fra i giovani, con incrementi del 400% all’anno dalla pandemia? Questa è un’emergenza vera”.
“Insegui l’approvazione, sei in balia degli altri e gli altri ti possono esaltare o distruggere”
“Abbiamo perso il mistero, l’energia sognante, il chiudere gli occhi e immaginare – spiega il professionista – ma l’immaginazione è magia. Nella vita sempre in diretta per ciò non c’è posto”. I social network hanno le loro colpe. “Troppi pensano che oggi il nostro mondo sia tutto in rete, nei post, dentro uno schermo – afferma – La realtà è chiusa in quella scatola: se non ci sono, se non intervengo, se non condivido gli altri non mi vedono e io non esisto. E se per la scatola non esisto vado in crisi (…) La dinamica social diventa pericolosa nel momento in cui ci si consegna alla piazza. Insegui l’approvazione, sei in balia degli altri e gli altri ti possono esaltare o distruggere: il consenso generale è illusorio, ora c’è ora non c’è”.
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Il parere di Raffaele Morelli sul caso Ferragni
Raffaele Morelli dice la sua sul caso Ferragni: “Lì abbiamo visto quanto forte può essere l’effetto di una telecamera sempre puntata su di sé, sui propri figli, sul cane. Se perdi il riferimento esterno, se la tua vita è tutta a favore di obiettivo e virtuale, c’è il rischio di iniziare a sentirti onnipotente e di commettere errori inseguendo i like. Poi sarà il tuo stesso mondo a presentare il conto. Può accadere di avere successo e può accadere di non averne più. Si sale in verticale e si rischia di cadere. L’eco di ogni cosa può diventare enorme in modo rapidissimo: inimmaginabile fino a pochi anni fa”.
“I ragazzi vengono tenuti ‘infantili’. Poi c’è l’omologazione: modelli identici per tutti”
I piccoli, afferma, “sono collocati sempre sull’esterno: si cerca, anche per loro, l’approvazione degli altri. I ragazzi vengono tenuti ‘infantili’: ho sentito qui nel mio studio un nonno parlare del nipote ventenne chiamandolo ‘tesoro’. Poi c’è l’omologazione: modelli identici per tutti. Dovremmo invece ricordarci che il nostro modello siamo solo noi, nella nostra unicità. L’immaginazione dove è finita? Lo dico sempre anche ai miei pazienti: riprendiamo a fare ciò che ci piaceva da bambini, ricordiamoci che ‘lì fuori’ ci sono altri mondi. Dobbiamo imparare a seguire la nostra stessa natura, per stare bene (…) Si paga un prezzo, perché questa natura può non piacere a tutti, non portare i like. Però è la tua ed è ciò che ti salva: non sarai dipendente da altro. Inoltre ho una convinzione: siamo anche il lavoro che facciamo”.
“Oggi abbiamo chi rifiuta un lavoro perché ha altri su cui contare”
Raffaele Morelli sottolinea come il lavoro, in molti casi, conti più dell’amore. Tuttavia, può anche capitare che “arrivino a rifiutare il lavoro, magari perché impegna il weekend. Ma molti ragazzi – non tutti ovviamente – agiscono così perché sono proprio i figli tenuti ‘infantili’ dai genitori”. “Ripeto, non tutti – puntualizza – Vero è che c’è meno indipendenza. Oggi abbiamo chi rifiuta un lavoro perché ha altri su cui contare. Dare il reddito di cittadinanza a un diciottenne significava togliergli l’ebbrezza di dire: ce la faccio da solo. Invece credo che i giovani debbano andare via da casa a 18 anni: c’è l’Erasmus, ci sono molte occasioni (…) Le difficoltà ci sono sempre state. Ma l’indipendenza è un po’ magia. I ragazzi la possono, la devono riconquistare”.